lunedì 7 novembre 2016

Accadde a Gela - Nella tana dei leoni

A febbraio 2012 mi sono posta il problema di come far affrontare a Pietro uno sport di gruppo, di squadra. Uno sport che avesse regole sufficientemente semplici da poter essere comprese immediatamente; uno sport dove se partiva qualche botta non era la fine del mondo; uno sport dove ci fosse contatto fisico necessariamente, per evitare che Pietro si abituasse a non averne.
Non volevo uno sport nobile: niente tennis, niente golf, niente equitazione (per ora – Pietro era all’epoca terrorizzato dai cavalli) e soprattutto uno sport dove potesse imparare, mio figlio, che nella vita da soli non si va da nessuna parte. Il gioco di squadra è fondamentale.
Il calcio ha regole complesse e un approccio etico per lo più molto lontano dalla mia forma mentale. Il calcio è l’unico sport in Italia dove il campo e gli spalti sono separati da una barriera fisica insormontabile. Prima, l’avevo visto solo nel circo dei leoni. Decisamente, non era lo sport che faceva per il mio bambino: la competizione è troppo serrata, anche tra i genitori. La possibilità di esporlo a frustrazioni forti era troppo alta. Lui deve essere portato ai confini delle proprie possibilità, per superare i suoi limiti, ma sempre con la consapevolezza del rischio che si sta correndo. In più, diciamocelo, Pietro ha il piede fucilato e nessuna predisposizione per il pallone. Il basket anche è piuttosto complesso. Pallanuoto non funziona. Pallavolo è troppo piccolo.
Allora, meglio del circo dei leoni, c’era la tana. Sì, i Lyons avrebbero avuto mio figlio. Così avevo deciso.
Il rugby ha un codice di comportamento, che è declinato se sei un giocatore, un genitore, un allenatore o un dirigente. Comunque sia e chiunque tu sia, il rugby ha qualcosa da darti. 
Io credo che sia necessario che i nostri bambini abbiano la possibilità di vivere senza giacere costantemente sotto la nostra ala protettiva. Quando la neuropsichiatra prese in carico Pietro, mi domandò cosa mi aspettassi dal futuro io per lui. Semplicemente, risposi: “Desidero che a diciotto anni possa uscire il venerdì sera a mangiare la pizza coi suoi amici e fare l’amore con la sua ragazza. Il resto non importa”. Lo penso ancora. Spero per lui una vita normale, serena e tranquilla. Spero più che altro per lui la SUA vita.
Desidero quindi un percorso in cui lui possa imparare la sua autosufficienza rispettando se stesso e gli altri e pretendendo lo stesso per sé. Io devo preparare questo bambino ad essere forte se sarà preso in giro e devo insegnargli (e metterlo nelle condizioni di imparare) che mai ugualmente dovrà approfittare di una sua condizione di vantaggio.
Quando parlo con Pietro gli spiego cos’è l’autismo, cosa significa che lui è autistico. L’ho fatto con i suoi cugini, gli zii, gli amici… un po’ con tutti. Lui deve essere pronto a sapere che ci sarà chi cercherà di ferirlo; deve conoscere i suoi punti deboli ed i suoi punti forti, perché possa con serenità affrontare le difficoltà che la vita ha senza dubbio riservato anche per lui. E spero che le affronti conoscendo bene questi semplici consigli che si trovano nel famoso codice etico.
Queste sono le regole che spingo anche ora mio figlio ad imparare, oggi da giocatore, domani da genitore, allenatore o semplicemente da uomo. Queste sono, credo, le regole fondamentali della vita.
Pietro non gioca più a rugby. Prima che se ne andasse, Achille – con un vero gesto d’amore - gli ha regalato come porta fortuna un portachiavi che è un mini pallone scaccia-pensieri. Achille non so chi sia. È un omone che ho conosciuto una sera ad una cena del rugby e gli ho raccontato un po’ della nostra storia. Achille è un rugbyista. Onore ai rugbyisti come Achille.
Pietro l’anno successivo ha esercitato il suo diritto di scelta ed ogni anno nuovamente: a lui piace ballare, in fondo, e forse un po’ nuotare. Non è sportivo, preferisce il teatro ed il cinema. Non importa. A me lui va bene così. Anzi, io ho vinto il mio terno al lotto. Non cambierei il mio passato nemmeno se potessi.

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