martedì 1 novembre 2016

Accadde a Gela - La legge morale dentro di me

“Marco Polo descrive un ponte, pietra per pietra. Ma qual è la pietra che sostiene il ponte? chiede Kublai Kan. Il ponte non è sostenuto da questa o da quella pietra - risponde Marco - ma dalla linea dell'arco che esse formano. Kublai Kan rimase silenzioso, riflettendo. Poi soggiunse: Perché mi parli delle pietre? È solo dell'arco che mi importa. Polo risponde: Senza pietre non c'è arco.”
Italo Calvino (Le città invisibili)


I bisogni da cui nasceva il progetto disegnano un mosaico di obiettivi generali e specifici. Questi, come le pietre di Marco Polo, solo “legati” insieme possono svelare l’obiettivo più profondo e reale: costruire un nuovo modello di società e ad attuarlo attraverso la trasformazione del modello del welfare, nel sistema dell’educazione e dello sviluppo dell’individuo, in un rapporto dialettico con ciò che è altro da lui e permeabile alle differenze.

Volevamo mettere a frutto ed a disposizione la nostra esperienza e riuscire a coniugare gli aspetti valoriali dell’interesse sociale e quelli economici delle strategie d’impresa. Senza questo, è impossibile riuscire a costruire l’arco e, quindi, il ponte.
È, la nostra, un'idea che individuava un mercato sostanzialmente nuovo, per alcuni versi, e - laddove non è nuovo il mercato - nuovo è il modo di intrepretarlo, intercettando non una domanda, ma un insieme di domande cui è possibile fornire un insieme di risposte che possono e devono essere date in maniera integrata, attraverso un approccio che rispetti le regole che fanno di una buona idea un'idea di business: efficacia, efficienza ed economicità.
Per riuscire a farlo, lo sforzo inizialmente più oneroso è stato quello di cercare di comprendere e poi di dimostrare che il mercato disegnato è “vero”: con uno sforzo di semplificazione, riteniamo che un mercato vero abbia un modo per certo di essere aggredito con soluzioni di business. Se non ce l'ha, non è un mercato. Neanche nel mondo del welfare.
Abbiamo disegnato i contorni di un progetto che non è un’utopia e non definisce una piaga, ma individua risposte per un insieme di problemi, con rischi e opportunità. L'educazione, la formazione, la disabilità sono temi che possono avere risposte differenti, più o meno efficaci, più o meno efficienti, più o meno economicamente sostenibili. Il nostro obiettivo, quindi, è stato quello di delineare quelle che secondo il nostro piano sono le risposte più funzionali.
Un problema necessita di risposte principali e di risposte "accessorie”. Abbiamo intuito che esiste una serie di problemi diretti: la scuola, l'assenza di un insieme di modelli educativi di riferimento, la necessità di declinarli lungo le specificità degli individui formati o da formare, il bisogno di creare delle professionalità che intercettano in maniera olistica i bisogni e li affrontano in un quadro unico di riferimento, senza banalizzare il processo di crescita. Professionalità disposte ad investire su se stesse, per una formazione permanente che le tenga costantemente aggiornate.
Condividere un sistema valoriale, in questo caso come - pensiamo - in via generale, significa quindi trovare delle soluzioni vincenti per gli imprenditori e vincenti per i portatori di interesse, che sono quanto mai articolati sia complessivamente e sia per ogni filone che compone il progetto.
Condividiamo un codice di comportamento etico basato sul principio che lo sviluppo del welfare (ed in particolare dei servizi socioeducativi all’infanzia che vogliamo realizzare) debba trarre vantaggio da scelte politiche ed imprenditoriali di lungo termine che comportano il rispetto del contesto sociale ed ambientale: lo sviluppo che vogliamo è fondato sul criterio della sostenibilità, cioè deve essere sostenibile nel lungo periodo, economicamente conveniente ed eticamente e socialmente equo verso l’individuo e la comunità.
Crediamo che sia possibile costruire una società multiculturale, che si fonda sul confronto tra le differenze perché le conosce e non ne ha paura, perché le interpreta come una ricchezza. Crediamo in una società più equa, che nella parità di diritti e nella parità di doveri vive ed interpreta l’individuo come elemento fondante e dove l’individuo si sente elemento fondante, conoscendone e riconoscendone conosce le regole e le rispetta. Crediamo in un welfare sinonimo di crescita culturale e di benessere per tutti, che risponda ai bisogni reali, con un approccio strategico che esalti e faccia risaltare il ruolo e le responsabilità di tutti i portatori d’interesse, senza sovrapposizioni, integrando tutte le risposte esistenti attraverso un coordinamento delle forze in campo, riconoscendo il valore della ricerca e della formazione; un welfare attuato con un approccio tattico che lo renda economicamente sostenibile. Perseguiamo la realizzazione di un mercato del lavoro che abbia rispetto dei professionisti che vi operano, che ne riconosce la professionalità ed il valore del lavoro, anche in termini di inquadramento contrattuale, retribuzione, aggiornamento professionale e formazione. Infine, crediamo in un sistema economico collaborativo, dove gli attori riconoscono il valore reciproco, costruendo un sistema di cooperazione che esalti le peculiarità di ciascun erogatore, nel rispetto di principi di qualità condivisi e sottoscritti e di un modello di erogazione che accompagna gli individui nei vari aspetti che caratterizzano i bisogni, senza standardizzazioni “al ribasso” dei servizi con un meccanismo di contenimento dei costi derivante dalla condivisione di strutture e risorse.
Queste sono le cose in cui ancora oggi, seppur faticosamente, crediamo.
Condividere un sistema valoriale, tuttavia, non è sufficiente per garantire la sostenibilità – anche economica – di un progetto che ambisce a realizzare un processo di trasformazione culturale e sociale. Bisogna individuare un’architettura industriale che riesca a interpretare ed a rispondere in maniera efficace alle diverse necessità degli attori del mercato di riferimento. Ma questo è un argomento da piano industriale, che in questo luogo non trova sede.
Serve però infine – e questo è un problema sociale e nuovamente politico – restituire all’approccio lobbystico nel nostro Paese il suo originario significato anglosassone: un gruppo d'interesse che agisce in modo da influenzare le decisioni dei legislatori, gli atti del governo e degli enti di controllo chiedendo rappresentanza legittima delle proprie istanze. D’altro canto “deputato” significa proprio “scelto per un compito da espletare da solo o con altri secondo un preciso mandato”, ovvero “rappresentante”.
Sarebbe invece auspicabile che la parola lobby perdesse quel retrogusto di “mafioso”, affinché l’andare a parlare con un parlamentare, un presidente di regione, un assessore o un sindaco o semplicemente un dipendente pubblico non ti faccia più sentire la necessità di penetrare la cricca degli amichetti. Sarebbe bello se al sistema fosse restituita una verginità che non corrisponde, semplicemente, alla ricostruzione dell’imene.

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