venerdì 7 ottobre 2016

Accadde a Gela - l'Istituzione, questa sconosciuta

Nel 2008 i problemi di Pietro erano sempre più evidenti. Nel 2009 divennero macroscopici. Io avevo costruito un sistema di cura intorno a mio figlio che garantisse a me la possibilità di un lavoro, a lui la possibilità di giornate tranquille, a mio marito la serenità di fughe lontano da un ambiente a volte orribilmente teso ed ostile, alle persone che costituivano il sistema stesso un intervallo di tempo con Pietro adeguato a non farne leggere la notizia sulle prime pagine dei giornali.
Fin da quando è nato, Pietro ha avuto almeno una tata e sempre e comunque proveniente dall’Equador. La prima si chiamava Kerly; poi c’è stata Monica, cui fu affiancata Andrea (in un periodo delirante in cui stavo fuori casa dalle 7 alle 19), che poi si consolidò come unica in forze. Poi, lo abbiamo sempre violentato e costretto a stare al nido prima, alla scuola materna poi. A Pietro è stato imposto di imparare, con il supporto necessario, a vivere in differenti contesti sociali.
Ciò che invece è mancato, nella vita di mio figlio e della nostra famiglia, è l’istituzione pubblica.
Il contributo dello Stato e delle sue declinazioni, in ogni settore della nostra esperienza, è stato evidentemente, marcatamente, assente. Rende ancora più pesante questa assenza il confronto con quello che è successo a Gela, perché là ancora più chiaramente è mancato un sistema di riferimento, un sostegno, un indirizzo, una risposta, una cura.
Se l’autismo è patologia primaria e non è legata quindi ad altre malattie che inficino la durata della vita media, questi bambini sono fisicamente perfetti. La mia esperienza mi fa dire che per lo più i bambini autistici che ho conosciuto sono belli, sani, forti. In altre parole: ti sopravvivono. Credetemi, io capisco quella mamma, perché come lei mille volte mi sono domandata: quando noi saremo morti, che ne sarà di lui? Chi avrà tutti i soldi che servono per fargli proseguire le cure, se domani dovessimo avere un incidente in macchina?
Poi, c’è un altro punto da sfatare: la coppia che sopravvive (quella in cui i genitori non si separano) non è precisamente la norma. Comunque, la sua sopravvivenza è legata al figlio. La coppia, di per sé, perde completamente la sua connotazione, la sua dimensione, la sua autonomia e diviene genitoriale e basta. Che uno dei due fugga non è nobile, non è bello. Ma, umanamente, è comprensibile. Non ci sono più pizze il venerdì sera, non esiste il cinema, manca una passeggiata da struscio il sabato pomeriggio, zero shopping, tuo figlio non lo puoi portare in giro, lo nascondi, ti vergogni, sei giudicato per strada da chi non sa nulla ma comunque parla.
Dopo che Pietro ha avuto privatamente la diagnosi, l’iter ha previsto la richiesta della certificazione, che avviene attraverso un’apposita commissione mista AUSL-Servizi Sociali. Io ricordo perfettamente chi per l’AUSL era presidente di commissione. E chi era lì per il Comune di Piacenza, in rappresentanza dei servizi sociali, e chi infine per l’INPS.
La visita fu il giorno 19 febbraio. La lettera con la risposta arrivò datata 29 aprile. In duplice copia, con allegato in versione integrale e ridotta il verbale della commissione, il testo diceva: “Con la presente si notifica il verbale relativo all’accertamento medico-legale effettuato nella seduta del 19/02/2010 in base al quale la S.V. è stata riconosciuta handicappata”. L’altra lettera di accompagnamento, leggermente più delicata, sostituiva la parola “handicappata” con “invalida”.
Il medico AUSL, al termine della valutazione, mi diede a mano il foglio per il sostegno scolastico, da consegnare alla scuola dell’infanzia, che a sua volta l’avrebbe inoltrata al settore formazione del Comune di Piacenza.
Questo è l’unico passaggio che ha funzionato.
Per il resto, quando nel 2010 chiesi di avere, come previsto in virtù dell’handicap di Pietro, tre settimane di partecipazione gratuita al centro estivo (secondo il bando “estate per tutti”) ad agosto l’assistente sociale di riferimento, al telefono, mi disse che i servizi sociali non avevano in carico Pietro, nonostante il Comune, nel settore formazione, da 6 mesi gli desse il contributi per il sostegno educativo.
D’altro canto, l’AUSL, nella persona del dottore che oggi è finalmente il neuropsichiatra di riferimento di mio figlio, è venuto a conoscenza della patologia di Pietro solo il 27 febbraio del 2012, quando ci siamo presentati da lui per chiedergli cosa dovessimo fare per l’iscrizione del nostro bambino alla scuola dell’obbligo.
Naturalmente, l’INPS ci riconosceva fino al secondo controllo 480 € al mese circa di pensione d’invalidità (finalmente ridotta al solo accompagnamento scolastico dopo l’esito della terza visita di controllo della certificazione, grazie agli incredibili progressi che ha fatto Pietro). Adesso so peraltro che per alcuni aspetti la procedura per la presentazione della richiesta si è notevolmente semplificata rispetto a come era quando feci domanda io, anche se ora è previsto che la richiesta per la certificazione possa essere presentata solo da uno specialista dell’AUSL. Se pure è comprensibile la ratio, trovo ancora in alcuni neuropsichiatri del servizio pubblico una resistenza difficilmente comprensibile a diagnosticare una patologia dei disturbi dell’età evolutiva. Ma poiché sono cose, queste, che riguardano altre famiglie, non mi soffermerò su queste storie.
Aggiungo a questo che Pietro frequentava la scuola materna a tempo pieno, oggi le elementari. Il sostegno gli è attribuito dal Comune per 12 ore a settimana. Più avanti, vedremo anche con quali costi per l’Amministrazione e quali per chi eroga il sostegno.
Ciò che è certo, è che la sanità pubblica, in Emilia Romagna, non contempla l’ABA come trattamento per l’autismo, o meglio lo contempla ma non per tutti e non con convenzioni sanitarie pubblico - privato che diano la possibilità di una risposta efficace al problema quantitativamente parlando in termini di ore terapeutiche (contrariamente a quanto avviene, ad esempio, in Puglia ed in Veneto).
Credo veramente che di strada ce ne sia ancora molta da fare, nonostante tutta la loro migliore volontà ed il loro indubbio impegno. Soprattutto, c’è un’infinità di strada da fare sul cammino della politica, perché il dialogo tra enti, il rispetto del cittadino, l’integrazione tra i sistemi ed i servizi divengano finalmente realtà e la presa in carico della persona – infine – davvero globale. Tutto questo indipendentemente dall’autismo. Ma da troppi anni (e con un trend peggiorativo) i nostri rappresentanti ad ogni livello sono eccessivamente impegnati in una costante campagna elettorale che ha perso qualunque connessione con la realtà a vantaggio di una continua ricerca di consensi e preferenze, come i bambini collezionano le figurine.

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