mercoledì 12 ottobre 2016

Accadde a Gela - L'alleanza

Ci siamo conosciuti una mattina d'inverno di alcuni anni fa. Nella sede di una cooperativa di costruzioni, circondati da personaggi sospesi tra un film di Fellini ed un libro di Ammanniti; il complemento a quelli ed a noi erano persone perbene in età da pensione, ex comunisti afflitti da una delusione esistenziale, che studi con l’affettuoso interesse di un paleontologo.
Seduti quasi opposti alla tavola rotonda, non ci è voluto molto tempo (reciprocamente) per capire che ci capivamo. 
Certo, la domanda legittima è perché fossimo seduti contemporaneamente a quel tavolo.
Avevo dato avvio fin dal 2008 ad una manovra di avvicinamento con la Presidente della Cooperativa in cui ho lavorato. Volevo capire se in qualche modo potevo mettere a disposizione quello che sapevo e che sapevo fare, per avviare la realizzazione del famoso progetto (quello del sogno di mio padre), che oggi aveva però tutta un’altra luce.
Rappresentavo quindi all’epoca (in maniera non ancora formalizzata) gli interessi di quella cooperativa. Diciamo che facevo la consulente, anche se in verità non c’era nessun contratto ancora a regolare i nostri rapporti e quel che facevo lo facevo a titolo gratuito.
Un architetto di belle speranze aveva creato il collegamento tra noi e Quadrifoglio Piacenza, la società di scopo costituita per sviluppare l’area dell’ex Manifattura Tabacchi, dopo che Tremonti aveva dato luogo – a partire dal 2001 – alla sua bolla speculativa di cartolarizzazioni del patrimonio pubblico, ivi compreso quello del Ministero delle Finanze.
Lui dunque rappresentava (da “tecnico”) gli interessi del veicolo, ovvero – più profondamente – del socio di capitale dell’operazione. 
Al tavolo, quindi, nella presentazione sommaria dei contenuti del progetto, peroravo la causa dell’educazione per tutti, delle terapie calmierate, di una società aperta e multiculturale, dell’integrazione fattiva per i bambini portatori di handicap e per le loro famiglie. Mi chiesero: “Quali handicap?” “Sì” rispose lui “quelle cose lì tipo l’autismo”.
A me quella parola suonò come un elettroshock; ero molto sensibile all’epoca. Lo fulminai e tra me e me pensai con sdegno “E tu che ne sai?”. “Sì,” ho detto io “tipo.”
Avvenne poi il sopralluogo, dove dunque ci incontrammo una seconda volta, in un’area di belle potenzialità – molto tetra – che oggi rappresenta per me uno dei posti più familiari di tutta Piacenza. Conosco ogni capannone, riconosco ogni variazione che avviene al suo interno e so precisamente riconoscere da cosa è stata generata, tra le razzie delle bande di ragazzini e di quelle più organizzate che cercano rame.
Ogni sasso, lì, oggi, ha una sua storia legata a questo progetto e alla mia vita intrinsecamente. Ogni buco nei vetri è il suggello di un patto cresciuto nel tempo e destinato a sopravvivere al di là di questa storia. 
Comunque, il giorno del sopralluogo – ricordo ogni parola – sopraggiungendogli da dietro gli ho detto “Lei deve aver insegnato al Politecnico, o giù di lì”. “Come fa a saperlo?” mi rispose. Semplicemente, ricordavo di averlo incontrato, circa 10 anni prima, nei corridoi del MIP, dove ero appena stata ammessa ad un master che poi non ho mai frequentato, perché ho preferito un caldo stipendio di Accenture. Ma il fotogramma di quello strano uomo un po’ arruffato nei corridoi del Politecnico era rimasto sepolto per tanto tempo, nitido nei contorni e pronto per riaffiorare finalmente.
Camminando lungo il viale che separa i capannoni e porta a ritroso all’ingresso dell’area, dandogli finalmente del tu, gli dissi scanzonata “Tanto lo sai che se non la vendete a noi vi rimane sul groppone per i prossimi 10 anni”. Lui ha semplicemente sorriso, ha abbassato gli occhi e mi ha detto “Sì, lo so”. In effetti, ce l’hanno ancora sul groppone.
È così che ci siamo conosciuti: la più grande crisi economica dopo il ’29 da cornice per quella che nella mia testa rimane la più grande operazione di trasformazione sociale mai ipotizzata nella storia della Repubblica e nemmeno un soldo per portarla a termine. Deve essere così che nascono le sceneggiature dei film. Un certo periodo ho creduto che magari un lunedì avremmo pagato 8 euro per andare a vedere qualcuno che rappresentava noi stessi.
Comunque, al primo tavolo di trattativa eravamo già “alleati”. Ci incontrammo il lunedì successivo.
“Voglio aiutarti”, disse. Io non sapevo perché, ma gli istintivamente gli credetti.
Gli mostrai quei conti che ancora oggi gli rinfaccio di non aver mai veramente guardato. Gli parlai di questo progetto, gli raccontai di quei bambini che tanto bene conosco e gli chiesi che ne sapesse lui dell’autismo. “Niente,” rispose candido “non so perché mi sia venuto in mente”. “Uno di quei bambini è mio figlio”. 
Poche settimane dopo gli presentai Pietro. Oggi può testimoniarne le trasformazioni. Oggi è per Pietro un amico, un riferimento, un compagno di giochi.
Credo, in fondo, che nella sua pazzia sia l’unica persona che non ha mai visto, guardando mio figlio, un bambino autistico, quanto piuttosto semplicemente un bambino.
Ecco. Da allora abbiamo incontrato professori universitari, ricercatori, finanziatori, psicologi, educatori, terapisti. Abbiamo provato a convincere con lo slancio, con la passione, con la ragione. Ma nessuno ha raccolto la scommessa, la sfida. Tutti, come sempre in Italia, hanno aspettato che sfondassimo da soli, oppure che annegassimo con il nostro autismo. Proprio come accadde a Gela.

1 commento:

  1. Benedetta sto leggendo il tuo racconto, la vostra vera storia, e devo dire che, avendovi visto solo dall'esterno (e poi giusto qualche volta), non immaginavo la madre forte che invece sei.
    Continua così! Sei una madre stupenda e hai una famiglia e un figlio meravigliosi.

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