sabato 8 ottobre 2016

Accadde a Gela - Dov'è finita la nostra Famiglia?

Il 26 ottobre 2009 Pietro riceve la sua diagnosi privatamente. Il 2 novembre inizia le terapie. La settimana in mezzo la passo tra fare conto economico e flussi di cassa di quanto costerà questo intervento, pianificare le sessioni di formazione per la tata, i nonni, gli zii ed i famigliari e scrivermi nella testa il decalogo della mia nuova vita.
La prima regola è: chi non si adegua è fuori. Quindi, per circa un anno (abbondante) le nonne, gli zii ed i parenti stretti non hanno praticamente avuto relazioni con Pietro. È tosto dire a tua mamma “non puoi stare con lui, non sei in grado” e peggio è riuscire a farlo con tua suocera, che oltre a non capire non è nemmeno tua madre. È stata una scelta difficile, dura, faticosa e di sofferenza, ma ne è valsa la pena; la rifarei.
In quell’anno abbondante Pietro è stato con me, con Nicolò, con Andrea (la tata), con le maestre a scuola. Abbiamo fatto sì che l’educatrice di sostegno assegnata a Pietro fosse la sua terapista, cosicché lui avesse continuità di trattamento lungo tutta la giornata e ci siamo impegnati a raggiungere i primi risultati per poter restituire Pietro alla sua famiglia e, soprattutto, alla vita. Se sia stato giusto, un bene, non sta a me giudicare. Certo, alcune eccezionalità le ha perse per strada. 
I sentimenti che  sono cresciuti, si sono consolidati e si sono trasformati in me mi hanno fatto vivere con la sensazione di essere un pugile appena massacrato di botte sul ring.
Guardavo chiunque con sospetto, a partire da chi mi stava intorno più strettamente; ad esempio a partire da mio marito. In questo, non poteva mancare la fase della ricerca del gene colpevole. Proverrà dalla mia o dalla tua famiglia? Per questo aspetto però io e mio marito siamo stati fortunati: precedenti più o meno illustri si trovano in entrambi i lati dell’albero genealogico. Comunque, mi sentivo incompresa. Di più: sentivo che mi era stato negato, anzi strappato un diritto e poiché non sapevo precisamente mettere a fuoco cosa, la rabbia e la frustrazione aumentavano a dismisura.
Ho interdetto anche a mia suocera le relazioni con Pietro dopo il giorno di Natale del 2009.
Lei voleva consegnare un regalo a Pietro; io le dissi di metterlo insieme agli altri, sotto l’albero. Lui è autistico, mica scemo; capisce, lo vuole subito, mi guarda furente e mi sfida. Si butta a terra e inizia la crisi.
Era una prova di forza e dovevo vincerla io. 
Invece è lei che non capisce in quel momento e… “io proprio non capisco perché tu debba far piangere questo povero bambino” furono le parole con cui gli allungò il pacco. Infuriata, uscii dalla stanza e m’infilai in camera mia sbattendo la porta. 
Poco dopo, mi raggiunse mio marito e poi una veloce bussata sulla porta anticipò l’ingresso di sua mamma. “Vorrei chiederti scusa per quello che è successo prima, ma lo sai, io non sono d’accordo con la strada che avete scelto per Pietro. È crudele come metodo. Mi sembri una madre cattiva, insomma, una cattiva madre. In fondo, io ho cresciuto i miei quattro figli con la terapia del buon senso”.
È una fucilata.
Guardo Nicolò, che mi ricambia e, zitto, abbassa gli occhi. Tocca a me difendermi. 
“E si vede.” rispondo io. Chiedo ad entrambi di lasciare la stanza e mi ci barrico dentro, in attesa che arrivino i cognati per festeggiare il santo Natale.
Non siamo uniti mio merito ed io, in quel momento. Le incomprensioni che potevano già esistere prima assumono una dimensione angosciante. Tutto entra in crisi. Sono un tolemaico davanti alla dimostrazione dell’astronomia copernicana. Devo cambiare sistema di riferimento, devo ritrovare un nuovo equilibrio. Devo accettare quello che è successo per poterlo combattere; poi, devo imparare a guardare dal suo punto di vista, conoscere l’autismo per pensare autistico. 
Il resto, per me, è ininfluente. 
Da quel momento, non guardo più in faccia a nessuno: l’unico pensiero costante è Pietro. 
Ci vorranno anni di lavoro, anni di giudizi severi e di arroccamenti sulle proprie posizioni, in casa, tra me e Nicolò, per ritornare a ridere insieme, a confidarci, a parlare da amici. Per ricominciare a costruire, normalmente, con disincantata complicità, il futuro di un bambino strappato al suo lato oscuro.
Questo è più o meno quello che intendo quando dico che la coppia difficilmente sopravvive e comunque trasforma profondamente la sua dimensione. Sono veramente troppe e tutte insieme le prove fisiche e psicologiche alle quali si è sottoposti. Basta davvero poco per perdere la ragione, proprio come accadde a Gela.

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