venerdì 16 settembre 2016

Accadde a Gela - Nato due volte

Pietro è nato il 20 ottobre 2006, in provincia di Piacenza, dopo una gravidanza a rischio e faticosa. Al sesto mese circa, in epoca da morfologica, mi hanno comunicato che i ventricoli cerebrali erano al limite superiore della dimensione di norma e che se la cosa non rientrava il bambino poteva nascere idrocefalo. Le quattro settimane successive io e mio marito le abbiamo passate avanti e indietro da Fidenza; alla fine è andato tutto bene. Siamo stato felici di non aver detto niente alle nostre mamme. Non sapevamo ancora nulla di quello che ci aspettava poi.
Dopo una minaccia di parto prematuro ed un mese e mezzo di tocolitici, vado in ospedale per il day hospital prima del fatidico giorno. La data prevista era il 4 novembre. Invece, il 19 ottobre a mezzo giorno il ginecologo mi dice che il bambino non è più cresciuto, che è “in sofferenza”, che è meglio procedere alla stimolazione del parto, se vogliamo essere sicuri che sopravviva. Ma, aggiunge, “la scelta è sua; deve farlo in coscienza”.
Il viaggio di ritorno da Fiorenzuola a Piacenza è in un bagno di lacrime. Nicolò guida ed io piango, infinitamente, senza tregua.
Mi chiama mia sorella Federica, poi mia sorella Barbara. Lei è a Piacenza e corre a casa nostra, dove già è lì praticamente quando la nostra macchina varca il cancello del giardino.
Barbara non ha la patente, all’epoca, né figli. Ma viene ad aiutarmi a fare la valigia per l’ospedale. Mi aspettano indietro entro le 14,30. 
Io continuo a piangere e Barbara ripone i vestiti (tutti sbagliati) in una valigetta Chicco pensata per mamme tulle e chiffon e destinata ad una donna che ci avrebbe messo altri tre anni a diventare per la seconda volta (e finalmente quella vera) madre dello stesso bambino.
Quando arrivo in ospedale, prendo possesso di una stanza (la mia prima stanza) in cui sono da sola. Per quanto mi riguarda, mi sento fortunata. Alla televisione l’allora ministra Turco predica in un’intervista la terapia del dolore per tutte le puerpere mentre un’ostetrica integralista del parto naturale – dopo avermi adeguatamente stimolato con l’ossitocina – mi spiega che mi devo muovere come il toro sul letto. Questa è la posizione antalgica. Ed io dondolo, dondolo, dondolo e non succede nulla ed amen.
Mio figlio è nato il 20 ottobre alle 20.45. La mia gestazione naturale è durata 26 ore di posizione antalgica ed ha portato ad una divaricazione (con l’aiuto delle pomate del caso) di ben 1,5 cm. Alle 20 del 20 la dottoressa di turno mi dice che vogliono fare un’ulteriore ciclo di ossitocina. Io ripenso “in sofferenza”. Prendo il cellulare, chiamo il mio ginecologo e gli comunico che se non viene immediatamente a farmi un cesareo, ci penso io, ma non garantisco il risultato. E, come lui disse a me il giorno precedente, aggiungo: “Ma la scelta è sua; deve farla in coscienza”.
Mezzora dopo sono in camera operatoria ed il bolo inutilizzato dell’epidurale viene sostituito dall’ago della spinale.
Nasce, piange, respira. 2 chili e 75 di bambino. Praticamente, una borsetta di Fendi che, come ogni borsetta, non manifesta nessuna intenzione di attaccarsi al seno, mentre la mia ottava misura costituisce l’orizzonte del mio sguardo.
Il lunedì mi preparo per uscire. Le visite di rito in pediatria. Il primario, ignaro dei nostri trascorsi, mentre sto attraversando la soglia per andarmene (in una mano il trasportino e nell’altra la valigia) mi rincorre e mi dice, testualmente: “signora, mi sono dimenticato di dirle che il bambino ha un problemino al cervello, niente di che: una cisti, una sacca d’acqua”. Ma alla parola “cervello” io non sentivo più niente, se non un prepotente fischio nelle orecchie. È così che ho perso le mie 8 misure di latte.
Per un anno, abbiamo fatto ecografie e monitoraggi per verificare se si riassorbiva. Si è riassorbita.

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