sabato 24 settembre 2016

Accadde a Gela - La lista

Mio padre è morto. Questa è una notizia relativamente fresca. È successo, è vero, ma poco più di 20 anni fa. 
Chi lo avesse incontrato nel pieno delle sue forze, avrebbe conosciuto un bell’uomo in stile tirolese, tendenzialmente un po’ arruffato, camicie di lana e pantaloni di velluto.
Così finalmente l’ho rivisto nell’ultimo sogno in cui siamo stati insieme: nel bosco dietro casa di mia zia a Collalbo ci siamo incamminati finché non abbiamo raggiunto un villaggio; qui, tra casette e giardini recintati in legno vivevano tantissimi bambini che giocavano felici e beati. Mio padre mi disse: “Questo è il mio compito: insegno a vivere ai bambini che non hanno potuto farlo”.
Con queste parole, più o meno, il sogno è finito. Al risveglio, non so perché, ho avuto la sensazione che quello che mio padre aveva avuto per sé sarebbe stato anche il mio compito. Mai pensiero fu, credetemi, più profetico di questo.
Così risalgono al 2003 circa i primi fogli di calcolo, i primi conti, i primi dettagli e le stesure del progetto che (incredibilmente ed inconsapevolmente) avrebbe avuto in Pietro soggetto e complemento oggetto e che ha segnato la mia vita ed il mio viaggio interiore con un tratto assolutamente indelebile.
All’epoca cercavo un fulcro che non riuscivo a trovare. 
Per molti anni mi sono domandata perché da quell’idea embrionale io non riuscissi a trovare lo slancio per costruire qualcosa veramente. Alla fine del 2009 mi è arrivata la risposta ufficiale.
Nel 2003 però questi pensieri erano poco più di un gioco, qualcosa che mi riempiva i buchi (pochi) di una vita da consulente lontana da casa.
Nicolò era già presente nella mia vita.
Nel corso del tempo ho imparato a fare numeri su numeri, ma poi non bastava mai e quello che è stato un passatempo è diventato materia d’interesse e di approfondimento: la pedagogia e gli aspetti patologici dello sviluppo dell’individuo. È ovvio, resto solo un ingegnere, che per passione prima e per necessità poi ha letto e studiato di tutt’altre materie.
Per questo dico che quando ad aprile 2007 Pietro si tagliò il piede la diagnosi nella mia mente fu immediata: quel male lo avevo già sentito, letto, studiato, conosciuto. Ora, solo, ce lo avevo davanti in carne ed ossa.
Vi confesserò anche che quando due anni dopo arrivò finalmente una neuropsichiatra a sostenere per iscritto quello che avevo invocato così lungamente, la parola autismo – associata a mio figlio – mi suonò in testa come una liberazione. Finalmente, dopo anni di anticamera, il nemico aveva un nome ed io una missione. Anzi, facciamo due: una era salvare mio figlio; l’altra era salvare me stessa e l’unico modo per farlo era costruire, come Schindler, la mia lista.

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